01 Settembre 2023

Manovra: braccio di ferro sulle briciole mentre la sanità affonda

Il ministro Schillaci aveva chiesto 3-4 miliardi, il collega Giorgetti ne metterà sul piatto molti meno. Ma ne servirebbero 80 per allinearsi ai nostri competitor. Intanto si aggravano i nodi strutturali

Di Ulisse Spinnato Vega

I numeri definitivi verranno fuori con la Nota di aggiornamento al Def di fine settembre. Ma è lampante che il quadro economico stia virando sulle tinte fosche: i venti di recessione che rischiano di propagarsi in Ue a partire dalla Germania e la stretta sui tassi di interesse che inasprisce il costo del debito pubblico non vengono compensati dall’inflazione che ha gonfiato la crescita nominale e migliora i rapporti deficit e debito su Pil. Dunque, è pochissimo il grasso che cola. La premier Giorgia Meloni e il ministro dell’Economia, Giancarlo Giorgetti, tenteranno di stoppare il solito assalto alla diligenza dei partiti di maggioranza: il messaggio di Chigi e del Mef è che le risorse sono limitatissime e vanno utilizzate per poche, pregnanti priorità. Tra le quali, purtroppo, non sembra esserci la sanità.

A fine luglio il ministro della Salute, Orazio Schillaci, aveva chiesto tre o quattro miliardi di euro per tamponare almeno le falle urgenti: stoppare l’emorragia di medici e infermieri dagli ospedali, grazie a incentivi al personale, e ovviare al vulnus del payback. I problemi strutturali, però, sono altri: bisogna rivedere l’assetto complessivo del Ssn, mettere al centro la qualità all’assistenza e ridurre i tempi e le liste d’attesa che ormai spingono i cittadini italiani a spendere in proprio oltre 40 miliardi per le cure sanitarie, di cui 10 miliardi intermediati dai fondi assicurativi. Una cifra che vale quasi un terzo de finanziamento al Ssn. In ogni caso, il braccio di ferro sui numeri nel governo è in corso e Giorgetti non sembra disponibile a mettere nel piatto più di uno o due miliardi a beneficio del sistema salute. Molto meno delle pur piccole risorse chieste da Schillaci.

Eppure i valori della programmazione economica parlano chiaro: se non si farà nulla, la spesa sanitaria rispetto al Pil è destinata a declinare fino al 6,2% nel 2025. Come se il Covid non avesse insegnato niente. Si discute allora di possibili azioni di spending review interna per recuperare risorse da girare al Ssn: una specie di gioco delle tre carte che non tiene conto della realtà. Secondo la Corte dei conti, la spesa sanitaria pro capite in Italia nel 2021 è stata pari a 2.851 dollari all’anno, contro i 5.905 dollari a testa spesi in Germania, i 4.632 dollari in Francia e i 4.158 dollari in Gran Bretagna. Una distanza abissale. Senza considerare che questi Paesi impegnano per i loro sistemi sanitari una quota del bilancio vicina o addirittura superiore al 10% del Pil, contro la nostra che sta appunto scendendo verso il sei. La differenza fa grossomodo 80 miliardi di euro: un ammontare lontanissimo dagli spiccioli su cui discutono il Tesoro e il ministero della Salute.  

Certo, oltre alle risorse per il Fondo sanitario nazionale servono organizzazione e programmazione. La governance deve rimanere in mano pubblica, bisogna far fronte ai buchi di organico e va rivisto il Dm 70 del 2015, che ha portato a una contrazione troppo forte di posti letti e strutture sanitarie in mano allo Stato. Senza dimenticare la riforma dell’assistenza territoriale, con gli obiettivi Pnrr in forte ritardo e già rivisti al ribasso, e il buco sulla contrattazione 2022-2024 del pubblico impiego. Il prossimo rinnovo dovrebbe recuperare l’impatto durissimo dell’inflazione sui salari nell’ultimo biennio. Ma per riuscirci appieno su tutta la platea degli statali servirebbero 30 miliardi di euro, mentre sarà tanto se il governo riuscirà a raggranellarne sette o otto nelle prossime due leggi di Bilancio. Per tamponare, si sta infatti pensando a una replica di quanto accaduto nella scorsa manovra: un aumento parziale e una tantum, pari all’1,5% dello stipendio lordo, per tutte le tredicesime. Briciole.

Dal canto suo, la Fnopi, la Federazione nazionale degli ordini delle professioni infermieristiche, punta sulla formazione del personale e snocciola tre priorità “che dovranno trovare spazio nelle prossime leggi, a partire da quella di Bilancio”: in primis “valorizzare la formazione infermieristica e le specializzazioni all'interno delle università anche con maggiori investimenti per il fondo previsto per sostenere la docenza universitaria e per aumentare il numero dei professori MED/45 (quelli in Infermieristica, appunto), per rendere qualitativamente sostenibile la nuova formazione”; in seconda battuta, secondo Fnopi, bisogna “implementare il percorso di formazione universitaria infermieristica, prevedendo le lauree magistrali a indirizzo clinico in risposta ai bisogni del sistema salute e della popolazione”; infine è necessario “correlare strutturalmente i posti del corso di laurea abilitante e delle lauree specialistiche adeguandoli al fabbisogno del sistema salute”.

Tra settembre e dicembre, insomma, capiremo cosa toccherà in sorte al nostro servizio sanitario. Ma è evidente che per un vero rilancio bisognerà aspettare tempi migliori.

 

 

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