27 Settembre 2023

Celiachia: e se non fosse colpa del glutine?

L'ipotesi è che l'intolleranza possa essere scatenata dal modo in cui si produce il grano. Nel mirino i 'fattori anti-nutrizionali' (Anf) del frumento. Se ne discute a un congresso del Gemelli

Di NS
Celiachia: e se non fosse colpa del glutine?

La celiachia colpisce in Italia circa 600mila persone, ma si stima che solo un terzo sia stato correttamente diagnosticato. Il numero in ogni caso è in crescita. Insorge in soggetti geneticamente predisposti, ma siamo sicuri che l’intolleranza al glutine dipenda dal glutine in sé e non da come viene prodotto oggi il grano? È la domanda alla base di un congresso (“Il frumento. Produzione, preparazione e consumo consapevole per il benessere intestinale”), che il Policlinico Gemelli ha organizzato per domani e che mette per la prima volta intorno allo stesso tavolo clinici (gastroenterologi, allergologi, nutrizionisti), agrari e produttori per discutere delle possibili cause dell’epidemia di ‘intolleranza al glutine’. Perché la ‘colpa’ potrebbe non essere del glutine, appunto, ma dei ‘fattori anti-nutritivi’ contenuti del frumento.


“Stiamo assistendo a livello mondiale – spiega Giovanni Cammarota, direttore della Unità operativa complessa di Gastroenterologia presso la Fondazione Policlinico Gemelli Irccs e associato di Gastroenterologia della Facoltà di Medicina dell’Università Cattolica del Sacro Cuore – a un’esplosione del marketing dei prodotti ‘gluten-free’, legata a una vera e propria ‘epidemia’ di intolleranza al glutine”. Ma quanto c’è di ‘moda’ o di suggestione e quanto di solida realtà scientifica? “Le patologie conosciute legate al frumento (celiachia, gluten-sensitivity, allergia al frumento) – afferma Cammarota - hanno una prevalenza che va dall’1 al 5%. Ma accanto a questo, si stima che a livello globale non meno del 10-15% delle persone si auto-diagnostichi una ‘intolleranza al glutine’ (in Italia il 12%) e quindi auto-escluda il glutine dalla propria dieta. E questo riguarda soprattutto i millennial e la generazione Z (fino al 15% di autodiagnosi), mentre nei baby boomer il fenomeno si attesta al 4%”.

Una possibile spiegazione di questo boom di intolleranza al glutine potrebbe essere legata all’industrializzazione della produzione del frumento. “I meccanismi che possono indurre sensibilità al glutine- prosegue Cammarota - sono ben conosciuti; ma bisogna prendere in considerazione anche tante altre proteine contenute nel frumento, in grado di indurre una sensibilizzazione. Grande interesse è appuntato al momento sui cosiddetti ‘fattori anti-nutrizionali’ (Anf) del frumento, quali fitati, tannini, amylase/trypsin inhibitors (ATIs) e tanti altri”. Queste proteine hanno la funzione specifica di proteggere del frumento dai suoi nemici naturali, ma allo stesso tempo possono rallentare la digestione delle proteine, dei carboidrati e delle molecole presenti nel frumento stesso, oltre che interferire con l’assorbimento di biomolecole (es. ferro e zinco), riducendone la biodisponibilità.

“Una modalità per neutralizzare questi anti-nutrizionali - chiarisce Cammarota – potrebbe essere ad esempio quella di prolungare i tempi di fermentazione del frumento, a temperatura controllata. Ma un aumento eccessivo della domanda, può portare ad una minore attenzione alla processazione del frumento; in questo caso questi anti-nutrizionali non vengono neutralizzati e possono provocare una cattiva digestione, ma anche innescare meccanismi infiammatori e di immunità innata nell’organismo”. In altre parole, una domanda eccessiva da parte del mercato, può portare a una scarsa qualità della processazione del frumento. E questo potrebbe essere alla base dell’esplosione della cosiddetta ‘gluten sensitivity’, più che il glutine di per sé”. “Ecco perché - conclude Cammarota - è così importante mettere insieme agrari e clinici (gastroenteologi, nutrizionisti, allergologi, ecc) per far convergere le diverse linee di ricerca su questo obiettivo e studiare la stessa problematica da punti di vista diversi”.

C’è la celiachia vera e propria, per cui l’unico trattamento è rappresentato per ora da una dieta priva di glutine (gluten-free), ma poi c’è un’allergia ad una proteina del grano. È una vera allergia, una reazione immediata: si manifesta in genere nei neonati e nella prima infanzia e tende a scomparire con la crescita. È presente in oltre un terzo dei bambini con dermatite atopica. Senza dimenticare la sensibilità al glutine: è un capitolo molto vasto e molto insidioso (se la autodiagnostica fino al 12% degli italiani) e non ci sono marcatori diagnostici obiettivi in grado di intercettarla. “Il paziente – spiega ancora Cammarota – riferisce sintomi (dolori addominali, gonfiore, nausea, mal di testa, sensazione di stanchezza, disturbi dell’alvo) a seguito dell’ingestione di glutine e si autodiagnostica questa ‘intolleranza’. Si tratta di una condizione molto diffusa, ma di difficile inquadramento diagnostico”.

“Sarebbe importante avere un dialogo continuo con la produzione – riflette lo scienziato - per cercare di variare la tipologia di frumento e di glutine e fare dei trial clinici controllati per capire se una certa lavorazione provochi o meno la comparsa dei sintomi.  Questa ondata di ‘sensibilità’ però, come ricordato, potrebbe non essere imputabile alla genetica del frumento (non sarebbe cioè una questione di grani ‘antichi’ o di grani ‘moderni’), quanto piuttosto alle moderne tecniche di produzione e di processamento. Interessante sarebbe anche andare a variare la tipologia del glutine all’interno del frumento, per individuare quello più immunogenico e in grado di stimolare la sensibilità. C’è insomma glutine e glutine, sia in termini di quantità che di qualità”.

 

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