Infermieri: l'emorragia rischia di uccidere il Ssn
Stipendi da fame, carichi di lavoro enormi: accelera la fuga dei professionisti verso altri mestieri o verso l'estero. E le iscrizioni ai corsi universitari continuano a calare. Ma la "soluzione indiana" non convince
Di Ulisse Spinnato Vega
L’emorragia di infermieri è sempre più grave e il Servizio sanitario rischia di rimanere un corpo esangue senza speranza di rilancio. Il ministro della Salute, Orazio Schillaci, non può che prenderne atto, per cui se da una parte bisogna “rendere più attrattivo” il mestiere “altrimenti i nostri giovani non si iscriveranno ai corsi di Infermieristica e continueremo ad avere problemi”, dall’altra è una “necessità” attingere professionisti dall’estero, a partire dall’India, per far funzionare le nascenti Case di comunità. Una soluzione che lascia scettico il Nursind, primo sindacato autonomo degli infermieri: “Se gli stipendi sono bassi vanno aumentati, punto. Non ci sembra una visione strategica reclutare professionisti dall’estero se poi i nostri se ne vanno o si licenziano”.
Intanto continuano a calare le domande di accesso ai corsi di laurea in Infermieristica (-10% in media rispetto all’anno scorso). E in alcuni atenei, per la prima volta, non si raggiunge neanche il numero dei posti messi a bando. In attesa di capire quanti soldi si troveranno in legge di Bilancio e per quali misure di incentivazione del personale, le cifre parlano di una carenza di almeno 60-70mila infermieri, cui se ne aggiungono 20mila collegati ai nuovi standard dell’assistenza territoriale (Ifoc, Infermieri di famiglia o comunità). Dall’altra parte la Fnopi ha calcolato in poco meno di 40mila i professionisti stranieri presenti in Italia, di cui circa 11mila immessi in emergenza durante la pandemia e altri 1.800 per effetto del decreto Ucraina. Schillaci e Agenas (l’Agenzia nazionale per i servizi sanitari regionali), ottimisticamente, contano su una stima di oltre 61mila infermieri che saranno inseriti da qui al 2026, ma il professor Angelo Mastrillo, autorevole osservatore delle dinamiche circa la formazione e l’inserimento del personale sanitario, a Nursind Sanità qualche mese fa prevedeva che avremo meno di 39mila laureati in Infermieristica nel triennio 2023-2025, con una media inferiore a 13mila l’anno. “Quindi servirebbero circa 23mila laureati nel solo 2026 per raggiungere la soglia prevista da Agenas – chiosava l’esperto – un numero che mi sembra un po’ troppo ottimistico”.
Fatto sta che gli infermieri italiani sempre più di frequente scappano via dalla professione o dalla Penisola. Spesso lasciano e vanno a fare altro oppure preferiscono fuggire all’estero, in cerca di stipendi e condizioni di lavoro migliori. Un primo fronte di emorragia è quello della Lombardia verso la vicina Svizzera. Nella Confederazione Elvetica si offrono stipendi di ingresso da 3mila euro al mese, che possono arrivare a 9mila euro dopo 15 anni di esperienza: un abisso rispetto alle magre retribuzioni italiane. La stima è di almeno 4mila infermieri lombardi in fuga, una carenza che si sta ripercuotendo pure, ad esempio, sulla raccolta delle donazioni di sangue. Donato Cosi, coordinatore regionale di Nursind Lombardia, non nasconde il disappunto: “Molti colleghi che vivono a pochi chilometri dal confine elvetico sono particolarmente attratti dalle condizioni economiche offerte. Competenze ed esperienza sono riconosciute dalle aziende sanitarie svizzere sia con una giusta remunerazione che con condizioni di lavoro adeguate”.
Nel vicino Piemonte, ancora il Nursind denuncia che alla Città della Salute di Torino mancano 500 infermieri e il buco totale in regione si attesta attorno alle 4mila unità. In compenso, il numero di operatori che arrivano dall’estero è particolarmente alto (il 13,5% sul totale degli infermieri piemontesi rispetto a una media nazionale di poco superiore al 5%), con una netta prevalenza, secondo i dati Fnopi, di rumeni, seguiti a distanza da polacchi, albanesi, indiani e peruviani. Nelle sole case di riposo del Veneto c’è invece una voragine di 2mila professionisti su una carenza che, anche qui, raggiunge in totale le 4mila unità; tanto che in territori come Treviso, Padova o Verona i dirigenti delle Ulss stanno pensando di ripescare dalle graduatorie il personale a tempo determinato per far fronte alle assenze aggravate da ferie e nuovi pensionamenti. Ma è come raschiare il fondo del barile.
In Toscana la carenza tocca addirittura quota 5mila, di cui 250 nella sola Firenze. E scendendo lungo lo Stivale, la situazione si fa, se possibile, ancora più grave. La stima Fnopi sulla mancanza di infermieri in Campania supera le 6mila unità. In Sicilia si calcolano oltre 7mila operatori da reclutare. L’Ordine degli infermieri di Palermo denuncia: “Molti spazi continuano a essere negati a un professionista che è indispensabile nel sistema sanitario, non solo sul piano dell’assistenza ma anche in quello della ricerca”. In Sardegna si valuta un buco intorno alle 6-700 unità, ma si tratta di una cifra rilevante se rapportata alla scarsa popolazione dell’isola. Insomma, lo scenario desta enorme preoccupazione, tanto che la Sidmi (Società italiana per la direzione e il management delle professioni infermieristiche) in un recente paper ha spiegato che bisogna affrontare con serietà “la situazione della carenza infermieristica senza ricercare alchimie o scorciatoie rispetto ad un fenomeno divenuto ormai strutturale”. E bisogna partire dalla “riforma del percorso formativo degli infermieri”, che è “ormai una delle priorità strategiche per la sostenibilità del Ssn”.
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